Kerkennah

tra deserto e paradiso

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    Kerkennah deserto e paradiso

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    Sull'arcipelago di sabbia al largo della Tunisia circola la leggenda che sia l'ultimo lembo vergine d'Oriente da scoprire. È vero solo a metà, perché laggiù, dove gli emigrati sono gli unici a voler tornare, non c'è proprio nulla. Se non calore umano, spazio vuoto, pescatori e ottimo cous cous. Chi cerca solo questo, però, è a casa sua

    di Anna Lombardi


    Se fosse roccia, lo definireste uno scoglio. Sabbioso com'è, l'arcipelago delle Kerkennah, in Tunisia, assomiglia piuttosto a un deserto in acqua, una secca che impone al mare la sua esistenza, discreta ma costante.
    Nove fra isole e isolotti, una superficie di 40 chilometri, 14 villaggi sulle uniche due isole abitate, collegate da un antico ponte romano, una sola strada che collega tutto, 14 mila abitanti, 8 traghetti che coprono in un'ora i 25 chilometri di mare che la separano da Sfax, la seconda città della Tunisia. E ancora, quattro (modesti) alberghi, 15 taxi, 10 pullman che fanno il giro dell'isola in poco meno di 40 minuti. Infine 576 barche a motore e 2206 barche a vela, tutte impegnate nella pesca. Un paradiso? Solo per i bastian contrari che sognano una Tunisia dove nessun turista osa prenotare, un non-luogo esotico perché senza esotismo alcuno, una meta carica solo del fascino di non essere destinazione di massa. Perché le Kerkennah, al di là di quelli citati fin qui, non hanno letteralmente altri numeri. L'atmosfera è desolata, piatta, la vetta più alta si staglia a 13 metri sul livello del mare. Il clima è arido, nessuna pianta riesce ad attecchire.

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    Le isole sono punteggiate da cactus e da palme, mai abbastanza fitte da offrire ombra. Come se non bastasse: il mare è così poco profondo che non permette di nuotare, cinquanta centimetri per almeno 100 metri dalla riva, e ci si può camminare ancora un bel pezzo.
    Uno scoglio. E come tale è sempre stato considerato dalla storia. Benché occupino una posizione strategica sul litorale tunisino, sulle rotte di Malta, Sicilia, Grecia e Oriente, le Kerkennah erano un luogo punitivo, d'esilio. Ulisse vi capitò durante le sue peregrinazioni. Qui i romani mandavano gli "indesiderati": come Caio Sempronio Gracco, reo di avere una relazione con Giulia, figlia dell'imperatore Augusto. Giulio Cesare vi trascorse due anni prima di poter tornare trionfalmente a Roma. Qui venivano segregate le spose musulmane adultere.
    Bourghiba, il padre dell'indipendenza tunisina, nel 1946, inseguito dai francesi, si nascose nella baracca di alcuni pescatori nella parte più remota dell'isola maggiore, prima di fuggire in Libia.

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    La barca su cui fuggì è l'unico cimelio conservato nel museo dell'isola. Sì, uno scoglio. Non ditelo però ai kerkenniani nel mondo, così legati alle loro isole da tenersi in contatto attraverso un forum sul sito internet www.kerkena.com, e da tornare compatti ogni estate, portando il numero di abitanti nell'isola fino a 140 mila persone. "Lavoro in una ditta di profumi a Sfax", racconta Mhadbi, "città famosa più che altro per il fiuto per gli affari dei suoi abitanti, protagonisti di centinaia di barzellette raccontate con invidia in tutto il Paese.
    Non me la sentivo di fare il pendolare, tutti i giorni il traghetto, e neppure di farlo fare ai miei figli, che vanno alla scuola secondaria. Alle Kerkennah ci sono solo le elementari, poi si comincia subito a lavorare: i maschi sulle barche, le femmine nei campi". Come molti altri che hanno fatto un po' di fortuna altrove, Mhadbi sta costruendo una casa sulle isole, una casa modesta. Ma c'è chi sta alzando al cielo vere e proprie bizzarrie, contaminando col gusto appreso altrove le barocche morfologie delle architetture arabe locali. Così, sparse nell'isola, compaiono come miraggi case dalle finestre a punta, balconi bombati, cupole multicolori. E c'è chi sul tetto ha perfino una piccola riproduzione in pietra della Tour Eiffel. Perché i Kerkenniani viaggiano. Una colonia, numerosissima, è a Parigi: fra questi Naima Ouarda, una ballerina che ha creato una compagnia che coniuga linguaggi contemporanei alle danze della tradizione tunisina. Ma dall'isola si parte anche in gommoni carichi di clandestini. Non è difficile crederlo, dista appena quattro ore da Lampedusa. La stazione di polizia ha in forze solo sei agenti, che fanno anche da vigili urbani e da pompieri. Molti, sull'isola, parlano italiano: effetto della tv e dei parenti emigrati che ogni anno tornano. "Sono stato clandestino in Italia per sei anni", racconta Ahmed con un sorriso gioioso. "Il permesso non sono mai riuscito ad averlo, ma sono stati anni belli: potevo vivere come qui non è consentito, qui tutti ti guardano, devi seguire la tradizione, e c'è solo il lavoro del mare. Quando va bene è un bel lavoro, ma quando va male... Poi mi hanno fermato e mandato via. Meglio così, avevo nostalgia delle mie isole. Però ora ho nostalgia dell'Italia...". Uno scoglio da cui fuggire. Ma non ditelo ai suoi abitanti, a quelli che restano. Come Samir, che è il più ricco dell'isola, possiede negozi a Sfax, e però vive qui, alla maniera antica. La sua casa è grande e costruita esattamente come tutte le altre del paese: cresce attorno a un cortile, è spoglia tranne che per le morbide stuoie che di notte fungono da letti e di giorno da divani. Unico simbolo di ricchezza, l'immenso televisore attorno al quale la numerosa famiglia si riunisce, e l'ancor più grande antenna parabolica, dietro cui i figli si nascondono per gioco. L'accoglienza di Samir è calorosa, offre cibo in abbondanza e non si può rifiutare il forte caffè tunisino. Del resto il calore umano è una peculiarità dei kerkenniani. Vergini in fatto di turismo di massa, al visitatore propongono, per guadagnare qualche soldo, quello che hanno: le loro case, il loro cibo, le loro attività quotidiane, offrendo involontariamente un'esperienza ormai molto ricercata, tipica del turismo responsabile. Negli anni '60, una società tunisina, la Somvik, tentò pigramente di lanciare l'isola come polo turistico, ma altro non fece che costruire un albergo di media qualità, l'hotel Le Grand, pallida imitazione dei villaggi turistici occidentali, e altri piccoli impianti troppo difficili da raggiungere. Sul turismo nelle Kerkennah proliferano vere leggende. La guida alla Tunisia della Lonely Planet racconta che gli isolani preferiscono che l'isola resti com'è, tanto da aver recentemente votato contro il progetto di un multimiliardario kuwaitiano di costruire un enorme complesso di alberghi a nord. Ma qui nessuno ricorda di aver votato una simile proposta. Gli abitanti raccontano piuttosto di un progetto americano che mirava a creare su uno degli isolotti deserti una struttura con 45 mila posti letto, bloccato dal governo tunisino perché l'isola, totalmente priva di infrastrutture, mal avrebbe sopportato un tale impatto turistico. La versione corrente, che passa per quello che in Tunisia viene definito "il telefono arabo", ossia il passaparola, è che l'isola offre ben altre prospettive economiche al governo tunisino: perché proprio qui, sullo scoglio, è stato trovato il metano e perfino un giacimento di petrolio. In attesa di un futuro quale che sia, sulle isole c'è chi tenta d'industriarsi da solo. Come Abdel, pescatore per vocazione, che arrotonda le sue scarse entrate accompagnando i rari turisti a pescare con lui. Sulla barca serve ottimo cous cous di pesce e tè alla menta. La giornata può proseguire a casa sua, poverissima e pulita, con una cena preparata dalla moglie, a base di gamberetti appena pescati, cotti in una salsa fatta d'olio e di harissa piccante. La sua vicina, Fatma, ha invece creato una piccola pensione dall'ampolloso nome di Residence de l'Archipelle. Nel villaggio di El Attaya, nell'interno, ha ricavato dalla sua casa tre stanze con bagno per gli ospiti, arredate all'occidentale ma secondo il gusto tunisino: cioè tende damascate, copriletti coloratissimi, un'enorme bambola sul letto, porte ad arco acuto, quadri figurativi a tema marino. Una volta abbondantemente cibati, gli ospiti (se vogliono) vengono intrattenuti con un gioco che consiste nell'abbigliarli con vesti tradizionali. Per chi non ha turisti, e neppure petrolio, la vita continua a ruotare con i ritmi della pesca. L'arcipelago ha 3 porti, ben attrezzati, e quasi tremila barche che setacciano il mare. All'inizio degli anni '80 l'attività dava risultati talmente buoni che era stata costruita una fabbrica per conservare il pesce destinato al mercato giapponese. Tanti kerkenniani erano addirittura tornati a vivere sull'isola lasciando altri lavori per la fabbrica. Ma la produzione, dopo i primi anni di pesca abbondante, è diventata insufficiente, e la fabbrica ha chiuso. Il mare, qui, ormai abbonda solo di polpi, che sono i veri re dell'isola. Pescato con una tecnica antica, che consiste nel depositare sui fondali centinaia di vasi di terracotta dove durante la notte lo sventurato va a nascondersi, il polpo costituisce l'alimento base degli isolani, con la tchich, una zuppa piccante. Al polpo è dedicato perfino un festival, l'ultimo weekend di marzo dove, per tre giorni, il "festeggiato" viene cucinato e consumato letteralmente in tutte le salse. Non solo. Con i suoi tentacoli si è talmente ancorato all'immaginario isolano da decorare le poche piazze del paese, con un anomalo monumento nazionale, e perfino i muri di alcuni luoghi pubblici, come la scuola e l'ospedale. E così questo scoglio tra mondo arabo e Occidente, l'isola dei deportati che sogna di diventare una piccola disneyland del turismo, l'arcipelago che adesso insegue l'opportunità del petrolio, si ritrova, come il polpo. Proteso, coi suoi tentacoli, in varie direzioni. Chissà se riuscirà a trovarne almeno una buona per il futuro.
     
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